Recensione: “Le nostre ore felici” di Gong Ji-young

Penso spesso alla morte.

Ci penso fin da bambina. Allora credevo che la morte agisse esclusivamente per sottrazione; ero convinta che l’assenza di una persona coincidesse con una sensazione di vuoto. E basta.

Poi ho iniziato a domandarmi “Ma quanto pesa quel vuoto? Se riuscissimo a introdurre un’unità di misura in grado di quantificare il suo peso in termini razionali e universali, cambierebbe il modo in cui ci confrontiamo con la morte? Tutti i vuoti hanno lo stesso peso?”

Penso spesso alla morte, dicevo.

Raramente, per negligenza, ho pensato alle esecuzioni capitali. “Anche il vuoto prodotto dalla morte di un condannato ha un suo peso?”

Le nostre ore felici di Gong Ji-young, best seller in patria e giunto in Italia per Baldini Castoldi Dalai Editore nel 2009, ha il pregio di introdurre la delicata questione della persistente presenza della pena di morte all’interno dell’ordinamento giuridico della Corea del Sud. Abolizionista de facto, la Corea del Sud prevede ancora la pena capitale per reati comuni quali l’omicidio ma non è teatro di esecuzioni dal 30 dicembre 1997. Da allora, infatti, l’orientamento del governo si è incentrato sulla sospensione dell’applicazione della pena di morte; tale atteggiamento è stato poi recentemente confermato dal voto a favore della Risoluzione 75/183 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, adottata il 16 dicembre 2020, che mira ad estendere l’istituto della moratoria della pena capitale con l’obiettivo finale di giungere alla sua definitiva abolizione nel mondo[1].

Le nostre ore felici è la storia di un incontro fortuito in un luogo insolito. Yujeong ha 30 anni ed è al terzo tentativo di suicidio. Dopo aver trascorso sette anni in Francia decide di tornare a Seoul dove ad attenderla c’è la sua famiglia, tanto benestante quanto distante dalla sua fragilità. Grazie alle conoscenze della madre riesce a trovare un posto di lavoro come professoressa all’università. Svogliatamente insegna arte. Svogliatamente continua a vivere. Dopo il suo ultimo tentativo di suicidio però, Yujeong si ritrova di fronte ad una scelta: accompagnare in carcere sua zia Monica, infaticabile suora settantenne, a far visita a un detenuto recluso nel braccio della morte oppure sottoporsi alle cure psichiatriche di routine.

E così un giovedì d’inverno Yujeong incontra Yunsu, giovane detenuto condannato a morte per stupro ed omicidio. Le storie dei due personaggi sembrano correre parallele e questa iniziale sensazione è confermata dalla struttura del romanzo. I capitoli si alternano: quelli denominati Blue note appartengono a Yunsu, sono il suo diario e risultano brevi e densi di un passato tragico; gli altri, semplicemente numerati, sono invece quelli di Yujeong e si presentano più lunghi e discorsivi, pieni di dialoghi che impediscono al romanzo di risultare statico. La distanza fisica tra i due si rispecchia nell’incapacità di comunicare. I silenzi invadono la piccola sala destinata alla visita settimanale, persistono nei muri e indugiano nei cuori. Infine crollano e vengono sostituiti da incontri preziosi capaci di curare l’animo.

Quasi tutto l’intreccio narrativo è ambientato in interni: il carcere, l’ospedale, la casa di Yujeong, il rischio di risultare opprimente è concreto ma Gong Ji-young è abile nel rendere camaleontici questi luoghi. Ogni elemento si adatta all’evoluzione dei personaggi e della loro storia, la noia è evitata. Eppure, il romanzo presenta alcuni punti deboli evidenti. Sebbene siano passati pochi lustri dalla sua pubblicazione, Le nostre ore felici cede sotto il peso del tempo ed appare stanco e senza forza. La natura dirompente della tematica affrontata viene appiattita dall’approccio semplificativo con cui viene descritto il percorso evolutivo di Yunsu. La sua storia è presentata come l’emblema della redenzione e della speranza; la scoperta di meritare amore e saper amare corrisponde alla volontà di abbracciare la fede. I tormenti lasciano il posto a una serenità incrollabile.

Un copione analogo è assegnato a Yujeong che, come più volte detto all’interno del romanzo, impara a vivere del riflesso di Yunsu: i cambiamenti nel carattere del giovane diventano i suoi. E finalmente impara ad accettare la vita. Finalmente impara a perdonare.

Un altro elemento debole nella struttura del romanzo è la mancata attenzione dedicata alla zia Monica, simbolo di una cristianità compassionevole e sincera, a tratti complessa e poco ortodossa e per questo interessante. Purtroppo, però, l’autrice concede poco spazio a questo personaggio che infine risulta fagocitato nell’universo, spesso infantile, spesso banale, di Yujeong.

Penso spesso alla morte.

Le nostre ore felici fa pensare al valore della vita e non al peso del vuoto della morte e questo, nonostante tutto, è di grande conforto.   


[1] Per approfondimenti consultare il Rapporto di Amnesty International.

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