Nel saggio Sensibili Guerriere, a cura di Federica Giardini, le autrici riflettono sul significato e le forme della forza femminile utilizzando come punto di partenza il libro L’arte della guerra per donne di Ching-Ning Chu. Quasi subito, però, il testo si rivela un insufficiente strumento di confronto e viene abbandonato, perché l’unica possibile dimensione della forza che presenta per una donna è quella mutuata da strategie e dinamiche tipiche di un certo universo maschile. Si tratta di una forza che ha come scopo un’affermazione individuale caratterizzata dal binomio “successo e denaro”, e per cui il mondo (personale e professionale) che circonda il singolo si definisce sempre in termini di avversari e obbiettivi da raggiungere, mediamente, a scapito del prossimo.
Questo tipo di “donna forte”, capace di prendere parte con grande abilità a giochi di forza interni alla famiglia o al posto di lavoro, e votata ad un successo che si identifica con status e potere, l’ho ritrovata in più di un K-drama: dalle eroine della storia alle loro antagoniste la stereotipizzazione, con alcune eccezioni, si ripresenta spesso.
A questo immaginario fa da contraltare la dimensione femminile rappresentata da Cho Nam-Joo in Kim Jiyoung, Born 1982, che, con linguaggio asciutto e precisione chirurgica, delinea il panorama nel quale si muovono le donne nella Corea del Sud contemporanea.
La divisione tradizionale dei ruoli di genere che identifica l’uomo come colui che mantiene la famiglia e la donna come custode del focolare domestico e dispensatrice di cure, non solo per i figli ma anche per i suoceri, rimane ancora molto presente nella società sud coreana. Nonostante l’emanazione di una serie di leggi volte a favorire la tutela delle donne e il loro ingresso nel mondo del lavoro, la Corea del Sud appare ancora oggi agli ultimi posti nelle classifiche per: differenza di salario tra uomini e donne (secondo i dati OCSE gli uomini guadagnano il 32.5% in più), accesso delle donne al mercato del lavoro, e loro presenza in posizioni manageriali, tutti indicatori che contribuiscono a determinare il Glass Ceiling index, la classifica stilata tutti gli anni da The Economist che assegna una valutazione sulla condizione delle donne nei paesi del mondo industrializzato. Nel 2019 la Corea del Sud si è classificata all’ultimo posto tra 29 paesi.
A partire dal 2015 però, si è registrata una crescente presenza delle donne nel dibattito pubblico, soprattutto grazie alle nuove generazioni che hanno trovato nella dimensione digitale uno spazio per sfidare apertamente concezioni sessiste e misogine. L’emergere del movimento #MeToo, con casi di molestie che coinvolgono personaggi noti della politica e dello spettacolo, e le proteste legate ai reati per ‘Molka’, ossia la registrazione e la vendita di immagini di donne riprese attraverso telecamere nascoste in bagni o spogliatoi pubblici, hanno contribuito a far aumentare l’attenzione sull’argomento, spostando la discussione anche sul piano del mondo reale.
Nonostante la maggiore sensibilità verso il tema, molte donne, anche se attivamente impegnate nella lotta contro le diseguaglianze di genere, sono ancora restie ad utilizzare la parola “femminista” per autodefinirsi, questa parola, infatti, viene prevalentemente associata a movimenti femministi definiti “radicali”. Si tratta di movimenti che contestano totalmente la concezione tradizionale del ruolo assegnato alla donna nella società, e per questo sono considerati come troppo estremi. Due noti esempi di questi gruppi sono 4B (i “4 no”: no alle relazioni, no al sesso, no al matrimonio, no ai figli), che rifiuta in modo radicale il ruolo tradizionale di moglie e madre, e Escape the Corset “Sfuggi al corsetto” che denuncia l’enorme pressione sociale alla quale si trovano sottoposte le donne per apparire sempre perfette.
In questo contesto, nel 2016, viene pubblicato Kim Jiyoung, Born 1982. Il libro ottiene, nei due anni successivi, un enorme successo di vendite e diventa anche uno dei testi di riferimento non solo del movimento #MeToo, ma anche dei già citati movimenti femministi 4B e Escape the Corset. Il romanzo sarà anche frutto di controversie e contestazioni: è famoso il caso della cantante del gruppo Red Velvet, Irene, attaccata pubblicamente da un certo numero di fan uomini dopo aver dichiarato di essere impegnata nella lettura del libro.
Ma qual è la ragione di tanta attenzione? E soprattutto: perché tante donne si riconoscono in Kim Jiyoung?
Kim Jiyoung è una giovane donna con un’educazione superiore, una carriera soddisfacente e che sposa l’uomo che ama. Dopo la nascita della figlia, però, Kim Jiyoung si trova costretta a dover lasciare il lavoro e a dedicarsi esclusivamente alla cura della bambina. Improvvisamente la protagonista comincia a soffrire di un disturbo della personalità che la porta ad immedesimarsi in diverse donne; il marito, in crescente preoccupazione, la spinge ad andare in cura da uno psichiatra con il quale Jiyoung ripercorrerà alcune tappe della propria vita.
Il libro, a metà tra racconto e reportage giornalistico, è stato scritto in soli due mesi e si basa a grandi linee sulle esperienze personali dell’autrice, Cho Nam-Joo, che prima di sposarsi e aver figli lavorava come sceneggiatrice televisiva. La scelta del nome della protagonista non è casuale, Jiyoung, infatti, è un nome molto comune dato a bambine nate in Corea del Sud nel corso degli anni ottanta e la stessa patologia di cui soffre la protagonista (il disturbo di personalità) assume un significato diverso se si tiene conto che Jiyoung, attraverso ognuna delle donne che impersona, da voce alle proprie frustrazioni. Alle frustrazioni di ognuna di noi.
Il racconto non è fatto di colpi di scena eppure ad ogni pagina il lettore si trova sempre più immerso in una quotidianità fatta di paradossi. Azioni apparentemente semplici, come prendere l’autobus o partecipare ad un colloquio di lavoro, si trasformano in imprese estenuanti e lotte per la sopravvivenza. Persino i momenti felici lasciano in bocca il gusto amaro dell’incompleto, dei ma e dei però.
L’estrema “normalità“ delle scene descritte è proprio quella che le rende così terribili perché ne svela le dinamiche sottostanti: quelle generate da un maschilismo latente che si traveste da consuetudine. Cho Nam-Joo punta il dito, dà un nome alle cose, e per questo le rende reali, le rende visibili.
Ecco, e forse è proprio per questa ragione che il libro ha avuto (e continua ad avere) tanto successo, anche fuori dalla Corea del Sud. Quando qualcosa ci succede quotidianamente, peggio, quando questo qualcosa è intrinsecamente integrato nel sistema di valori che ci circonda, la mancanza ci appare sempre la nostra. Quando improvvisamente scopriamo che questa esperienza non è unica, ma appartiene anche ad altre, non ci sentiamo più così sole. Quando alla nostra voce fa eco quella delle nostre amiche, delle nostre colleghe, delle nostre madri, perfino quella di perfette estranee, allora cominciamo a pensare che forse è il sistema che va cambiato, non noi stesse.
Se, come dice Bertold Brecht: l’arte non è uno specchio per riflettere la realtà, ma un martello con cui darle forma, mi auguro che il martello di Cho Nam-Joo contribuisca a scalfire considerevolmente tutti quei meccanismi residui di un sistema patriarcale che caratterizza ancora non solo la società sud coreana, ma anche la nostra.
Di Elisabetta Cesaroni