Di sogni e amori effimeri: i giovani coreani oggi, nelle parole di Jung Daegun

«우리 졸라 없어 보인다. 불행과 상처를 소중한 자산처럼 삼지는 말자.»

«Siamo degli sfigati del cazzo! Non trasformiamo sfortune e ferite in beni preziosi».

Questa frase, pronunciata da Sol, è una delle prime che mi ha colpito leggendo il racconto I TINDER U, dello scrittore sud-coreano Jung Daegun. Ogni evento che ha costellato la nostra esistenza, come ogni nostro errore e ogni nostro successo, ci hanno portato a essere quello che siamo. Per sopravvivere cerchiamo di dare un senso anche alle più grandi difficoltà, al dolore che spesso un senso non ha. Si dice che le cose più fragili siano anche le più belle, ma quante volte avremmo voluto urlare al mondo le parole dette da Sol? Per quanto scorrette e ciniche…

Ho avuto modo di conoscere personalmente Jung Daegun durante la sua permanenza a Napoli, presso l’università L’Orientale, grazie a un programma di promozione della letteratura e delle arti coreane finanziato da Arts Council Korea (ARKO). Nell’ambito di questo progetto ho tradotto in italiano il racconto sopracitato e tenuto due conferenze con lo scrittore, durante le quali lui ha raccontato la sua esperienza nel mondo della scrittura e la sua personale ricerca della felicità.

«비슷한 패턴으로 누구에게 빠지고, 가까워지고, 멀어지고, 그렇게 계속 돌아가는 컨베이어 벨트가 있다면 나는 스위치를 꺼두고 싶어. 이제 아예 거기에서 내려오고 싶어.»

호는 정말로 지친 기색이었다.

«그래. 뭐, 누구를 만나야 하는 아니니까.»

«Seguendo lo stesso schema mi innamoro di una nuova persona, diventiamo intimi, poi ci allontaniamo e sto male: è come se continuassi a passare su un rullo trasportatore che vorrei spegnere e dal quale, adesso, vorrei tanto poter scendere».

Ho aveva davvero una espressione stanca.

«Capisco. Beh, non devi per forza frequentare qualcuno, no?»

I TINDER U è una storia d’amore, amicizia e solitudine di due giovani ragazzi di Seoul, Ho e Sol. Tra questi tre elementi è forse quello della solitudine che appare in maniera più lampante agli occhi del lettore: una solitudine sofferta, dalla quale si cerca di scappare ma che, in qualche modo, sembra essere la prigione della generazione MZ. Vivere nella Corea del Sud di oggi, come in tanti altri Paesi del mondo globalizzato, non è affatto facile e sono tanti i problemi che rendono la vita dei giovani una vera e propria corsa all’eccellenza, soprattutto in questo Paese asiatico dominato dal monito: sii il migliore, altrimenti non ci sarà posto per te. Non ci sarà posto per te nelle SKY (Seoul University, Korea University e Yonsei University), né nelle altre università prestigiose in grado di fornire un titolo ben spendibile nel mondo del lavoro. E non ci sarà posto di lavoro che ti permetta di affittare o comprare una casa e mettere su famiglia. Nasce così il fenomeno delle generazioni dei No (N포세대). C’è chi rinuncia perché non ha scelta, chi lo fa volontariamente per fuggire dalla pressione sociale, ma il risultato è lo stesso: si rinuncia a tante cose. Un termine molto diffuso in Corea oggi è honjok (혼족, a tal riguardo vi rimandiamo alla recensione del libro omonimo), letteralmente “una tribù fatta di una sola persona” e che indica la preferenza a vivere da soli. Sono tanti e complessi i motivi che hanno portato alla diffusione di questo fenomeno ma – come ha evidenziato lo stesso Jung Daegun durante gli incontri tenuti con gli studenti de L’Orientale – in una società che spinge i giovani a competere sin da piccoli, scegliere di vivere appartati dagli altri sembra una normale conseguenza, un desiderio di evasione da questa soffocante pressione. 

네모가 되기를 빌고 세모

Il triangolo che voleva diventare quadrato.

La seconda volta che ho incontrato Daegun mi ha dato il suo bigliettino da visita, sottolineando che “non c’è scritta una professione perché non ho un lavoro”. La cosa mi lasciò perplessa. Ribattei: “Ma sei uno scrittore”. Così ho scoperto che, a parte rari casi come il celebre Hwang Sŏk Yŏng, è difficile che uno scrittore riesca a sostenersi solo con le sue pubblicazioni. Molti scrivono nel tempo libero, avendo un altro lavoro, altri sono costretti ad associare lavori part-time per potersi mantenere. Durante la conferenza dal titolo “Il triangolo che voleva diventare quadrato”, Daegun ha mostrato un estratto del documentario “Too Old Hip Hop Kid”, da lui girato e che racconta il suo sogno adolescenziale di voler diventare un rapper. Sogno condiviso con tanti amici e che si era alla fine rivelato una ambizione effimera e irrealizzabile. Nel documentario, girato quando l’autore aveva intorno ai venti anni e decise di studiare cinematografia, occupa un ruolo centrale la madre dello scrittore, che mostra le sue preoccupazioni verso il futuro incerto del figlio. La risposta di lui è semplice e lo accumuna a tanti altri giovani: “io voglio solo fare qualcosa che mi renda felice, ma non ho ancora capito cosa”.

Il punto è che di vita ne abbiamo una sola, per cui dovremmo spendere il tempo che è noi concesso al meglio, ma molto spesso la società ci porta a odiare ciò che amiamo. Il primo romanzo pubblicato da Jung Daegun, Il malevolo GV Go Taegyeong (GV빌런 고태경) è incentrato esattamente su questo tema. Per i racconti che scrive, Daegun si rifà alle sue esperienze di vita, e così nelle afflizioni della protagonista ritroviamo quelle patite dallo stesso autore quando ha iniziato ad avvertire il lavoro di regista inadatto a lui “come una scarpa di un numero sbagliato”.

성과만을 강조하는 사회는 우리가 사랑하던 것을 미워하게 만들고, 존재에 대해 죄책감을 느끼게 하며, 우리에게 1인분의 몫을 다할 것을 요구한다. 그리고 그것을 위한 생산적인 선택만을 강요한다.

Una società che pone l’attenzione solo sulle prestazioni ci fa odiare ciò che amiamo, ci fa sentire in colpa per il fatto di esistere, ci chiede di pagare il nostro contributo e di fare solo scelte produttive.

A Napoli ci sono tanti eventi splendidi negli edifici storici di cui è costellata la città, tra questi trovo molto particolare il “Concerto al buio” presso la Galleria Borbonica. Il concerto è preceduto da una visita guidata del luogo, motivo per cui ho pensato fosse perfetto per un turista: in un colpo solo può visitare un monumento storico e godersi una esibizione a dir poco unica nel suo genere. Così ho invitato Daegun ad andarci e lui ha subito accettato, incuriosito dalla particolarità dell’evento. Una volta conclusa la visita guidata, si prende posto in un ampio atrio dell’antica galleria sotterranea del capoluogo campano e calano le tenebre per dare completamente spazio alla musica di violino e pianoforte. Il violinista Edo Notarloberti, accompagnato dal pianista Luigi Rubino, presenta ogni brano da lui composto. Ovviamente, quel giorno tradurre durante l’esibizione era impossibile, ma cercai di riportare quanto più mi era piaciuto di quelle parole a fine concerto. Vi fu una frase in particolare che colpì lo scrittore perché mi disse essere, in sostanza, uno dei messaggi che aveva lasciato nel suo romanzo di esordio. La sintetizzerò così: a volte bisogna concedersi la resa, accettare il fallimento, abbracciarlo e accoglierlo. Come diceva Pasolini è “necessario educare le nuove generazioni al valore della sconfitta”.

D’altra parte, ogni sconfitta può essere la porta verso un nuovo inizio e una nuova passione che ci accende l’anima. Se le cose non fossero andate male a Daegun nel mondo del cinema, forse non avrebbe scritto romanzi, non sarebbe mai arrivato a vivere per tre mesi a Napoli, e le parole dei sui scritti non sarebbero mai diventate fonte di consolazione per tanti lettori coreani e – un giorno, chissà – anche quelli italiani.

Attualmente non sono disponibili traduzioni dei romanzi e racconti di Jung Daegun. Per chi conosce il coreano, a seguire i link ai suoi romanzi:

GV 빌런 고태경

아이 틴더 유

급류

A questo link, invece, potete leggere gli articoli scritti da Jung Daegun durante la sua permanenza nel capoluogo campano: https://ch.yes24.com/Article/List/3071

La permanenza di Jung Daegun a Napoli è stata possibile grazie all’iniziativa e all’organizzazione del professore Andrea De Benedittis, a capo del dipartimento di coreanistica dell’università L’Orientale, che vorrei sinceramente ringraziare per avermi coinvolta in questo progetto e per la fiducia che mi ha accordato nell’affidarmi la traduzione di I TINDER U. Altro ringraziamento di cuore va alla professoressa Kim Wiseon, che insegna letteratura e filologia coreana nella medesima università, per i preziosi consigli e feedback che mi ha fornito sulla traduzione, nonché il suo caloroso supporto morale. Non può mancare in questa lista di ringraziamenti Jessica Rossi, dottoranda in coreanistica presso L’Orientale, per il suo prezioso aiuto e supporto in questo programma di scambio.

PS. un ringraziamento anche a Piera, che leggendo la frase di apertura di questo articolo capirà^^

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