La traduzione può essere un lavoro estenuante che necessita di ritornare sulle stesse parole più e più volte, smontando e rimontando periodi sino a giungere alla loro ricostruzione.
Il mestiere del traduttore sta vivendo una fase di profondi cambiamenti, ne abbiamo parlato con Mary Lou Emberti Gialloreti, traduttrice per Bao Publishing delle graphic novel di Keum Suk Gendry-Kim, ne è emersa una riflessione intensa e personale su cosa ha significato per lei scegliere questo mestiere.
Puoi raccontarci il tuo percorso formativo? Cosa o chi ti ha condotto verso la Corea? È stata una scelta diventare traduttrice oppure è semplicemente capitato?
Ho sempre avuto una forte fascinazione per le lingue, per i viaggi e per il mestiere del traduttore, ma non sono arrivata alla Corea guidata da una mia particolare passione, né ho mai davvero creduto che potessi avere le carte in regola per poter fare della lingua coreana un lavoro (in realtà lo credo ancora, ma credo si tratti di una forte sindrome dell’impostore e ansia da prestazione che chi fa questo mestiere conosce bene). Barcamenandomi come tutti nella scelta di un percorso di formazione una volta diplomata, ho iniziato a frequentare le prime lezioni di lingua cinese all’università. Entusiasmata dall’idea di poter apprendere il cinese ho cominciato a improntare il mio piano di studi verso quell’area geografica, inserendo il coreano, una delle scelte possibili, come seconda lingua straniera. L’estremo interesse nato in aula e l’apertura di possibilità di scambio e per seguire corsi intensivi di lingua coreana — ai tempi eravamo davvero in pochi rispetto a oggi — mi hanno condotta durante il mio terzo anno di università per la prima volta a Seul con una borsa di studio. Dall’esperienza del viaggio, come credo spesso accada quando si parte, è nato tutto; sono sbocciati nuovi interessi, amicizie durature e man mano ho cominciato a capire di voler continuare a conoscere la cultura e la lingua di questo paese. Nel tempo poi, potendomi recare più volte in Corea e avvicinandomi per motivi di ricerca ad altri aspetti specifici legati alla storia, alla società e alle arti visive della penisola coreana, la traduzione e lo studio della lingua, se approcciati inizialmente per reperire materiali di prima mano per i miei studi e soprattutto per comunicare e capire la realtà in cui mi sono ritrovata, sono gradualmente divenuti alleati che mi hanno accompagnata dal percorso di laurea magistrale fino a oggi, per più di dieci anni. Mi ritengo una persona poco avvezza alle attività puramente intellettuali e credo di tendere molto al lavoro pratico e manuale, mi piace capire il funzionamento delle cose, adoro smontare, rimontare e riparare gli oggetti. Con lo studio della lingua si è innescato in me un meccanismo simile. Tradurre e cimentarsi con altri modi di descrivere ciò che possiamo esperire è un appassionante esercizio che nel mio caso si affina solo con la pratica. Divertendomi nella traduzione, ho iniziato in parallelo agli studi e a innumerevoli altre esperienze di lavoro più o meno precario a cimentarmi con i primi incarichi da freelance in ambito commerciale, per poi approdare solo più avanti in ambito letterario, che sto attualmente cercando di far diventare un mestiere a tempo pieno.
Ti sei laureata a Roma in Lingua e cultura coreana nel 2012 e hai conseguito il dottorato pochi anni dopo, nel 2016. In quegli anni l’immagine della Corea era ancora associata principalmente alle auto e alla tecnologia, solo più tardi alcuni elementi della cultura coreana sono diventati “familiari” nella nostra vita. Oggi è facile reperire prodotti coreani negli alimentari orientali o provare il kimchi direttamente in un ristorante coreano; su Netflix abbiamo una vasta proposta di drama e il Far East Film Festival non è più conosciuto da pochi appassionati di nicchia; imparare il coreano poi non sembra più difficile dell’inglese. Il mio timore è che l’esercizio del soft power abbia generato una sorta di fascinazione – lo stesso processo del Giappone a partire dagli anni ’80 – che tende ad escludere le criticità presenti in Corea.
Non so se si può paragonare il fenomeno del soft power coreano con la realtà giapponese, perché la società globale stessa in pochi anni è profondamente cambiata e la velocità di connessione e di accessibilità alle informazioni è oggi radicalmente diversa dagli anni ‘80. Certamente è vero che quello che oggi conosciamo come hallyu o Korean wave, cioè il costante incremento della popolarità della cultura sudcoreana, rischia di appiattire un eventuale approfondimento di temi che possiamo considerare più “critici” o almeno rilevanti per avere un quadro più completo di un contesto sociale e culturale molto più complesso. Il soft power è un fenomeno che negli anni ha alimentato una serie di solide strategie promozionali, di incentivi governativi e di finanziamenti che hanno permesso alla Corea di essere conosciuta su scala globale. L’immagine in qualche modo “confezionata” e discutibile di un determinato paese a noi lontano può certamente rischiare di falsare una realtà ben più stratificata, ma penso che comunque possa fungere per noi che viviamo a migliaia di chilometri di distanza, da utile “porta di ingresso” — coloratissima — che può permettere di osservare, di continuare ad approfondire e di avvicinarci. Se negli anni ’80 il soft power portando con sé le sue contraddizioni fungeva per tanti versi come via obbligata di scoperta e di conoscenza da percorrere per approcciare un contesto affascinante come quello giapponese, quello a cui mi sembra di assistere oggi, non solo per il caso coreano, è che se si ha il desiderio di accrescere le proprie conoscenze in qualsiasi campo, gli strumenti a disposizione per farlo siano oggi molti di più e abbiano un potenziale maggiore.
Tra i vari aspetti che compongono la traduzione letteraria mi incuriosisce soprattutto: la presenza o meno di una metodologia rigorosa nell’avvicinarsi al testo e l’eventuale rapporto che si instaura con l’autore/trice.
La traduzione può essere un estenuante labor limae. Si puòsempre migliorare, non si ha mai la sensazione di aver finito davvero, c’è sempre qualcosa da affinare e di cui avere cura. Credo che ogni traduttore abbia una sua metodologia di approccio al testo, e nel mio caso penso di avere metodi (e veri e propri disordini) diversi a seconda della tipologia e della difficoltà testuale. Non sento ancora di poter approcciare con rilassatezza alla lettura di un romanzo o di una graphic novel in coreano perché per me ogni inizio è denso di tensione e di timore di essere inadeguati, per cui spesso quando mi ritrovo con un nuovo lavoro per le mani provo a tradurre subito durante la prima lettura, prendo appunti, faccio ricerche e segno espressioni su cui poi tornare. A volte invece, se sento che il livello del linguaggio si avvicina di più a una mia comprensione per così dire “istintiva”, riesco fin dal principio a leggere l’insieme e a buttar giù una bozza più o meno completa di traduzione su cui poi tornare (e ritornare infinite volte) in un secondo momento finché non la sento coerente. Una caratteristica nella traduzione che ho sempre riscontrato con la lingua coreana è che il processo di messa a punto di un testo soddisfacente nella lingua di arrivo è piuttosto lento, che comporta una specie di esercizio di compensazione, che si fa via via più scorrevole più si entra nelle profondità del testo. Non di rado dal coreano mi ritrovo con la capacità di essere più precisa e cosciente solo quando arrivo alla metà del lavoro, cosa che mi porta a ritornare sulle parti iniziali e a pormi sempre tante domande che inizialmente non erano sorte.
Proprio come ogni testo è diverso e come ogni persona è diversa dall’altra, anche il rapporto con gli autori lo è. Finora sono sempre stata piuttosto fortunata nel riuscire a gestire la mia conoscenza con gli autori solo dopo che sentivo che la traduzione, fatta da sola o anche a quattro mani, era già per me apprezzabile, e questo non ha comportato la necessità di particolare confronto diretto su singole parti su cui mi sentivo in dubbio. Per i romanzi grafici che ho tradotto invece, ho avuto la fortuna di avere uno scambio calorosissimo e affettuoso con gli autori, che hanno offerto la possibilità di contattarli sin dall’inizio. In un’occasione ho anche ricevuto da parte di due autori veri e propri glossari per aiutarmi nella comprensione del testo. Spero che questo genere di rapporto si intensifichi se avrò occasione di tradurre altre opere e non nego che se in futuro dovessi avere l’occasione di tradurre testi di diversa complessità, mi piacerebbe molto potermi confrontare in modo diretto con gli autori strada facendo.
Il mestiere del traduttore sembra essere uscito da quella zona d’ombra che lo rilegava a menzione sul frontespizio; ciò si riflette in scelte audaci come quella compiuta da Chiara Reali per la nuova traduzione di La mano sinistra del buio di Ursula K. Le Guin (Mondadori, 2021), nella decisione da parte di alcune case editrici di inserire il nome del traduttore sulla copertina o ancora, in una rinnovata consapevolezza del proprio ruolo, che fa del traduttore una figura professionale chiave all’interno del processo editoriale, comparabile a chi fa scouting o agli agenti letterari. Come vivi questa fase di transizione?
La graduale affermazione di una nuova percezione del ruolo del traduttore editoriale mi rende molto felice. Tante sono le battaglie dei traduttori, non solo in Italia, per vedere riconosciuto il proprio impegno professionale sia come autori di testi che come promotori di nuovi contenuti letterari. Quello che personalmente sento importante in questo momento, anche se un nome in copertina può essere un vanto che può portare a grandissima soddisfazione, è però l’importanza del riconoscimento della traduzione editoriale come vera e propria professione che sia equamente retribuita e regolamentata, perché spesso rimane un’attività relegata ai margini di altri mestieri portati avanti in parallelo, con enorme sforzo di chi la fa. La vera speranza è che la traduzione editoriale possa divenire nel tempo un’occasione di realizzazione professionale per tutti coloro che vogliono cimentarvisi.
Nonostante ci si stia indirizzando verso un adeguato riconoscimento professionale, capita ancora di imbattersi in traduzioni da lingue ponte. Un caso piuttosto recente è rappresentato da Le origini del male di You-Jeong Jeong (Feltrinelli, 2019). Come mai si ricorre ancora a questa pratica nonostante siano ormai presenti validi traduttori dal coreano?
L’Italia gode da tempo della presenza di validi esperti, ma il coreano è una lingua ancora poco praticata nelle traduzioni, almeno verso l’italiano e non solo in campo editoriale. Si può riscontrare la stessa scarsità anche nella traduzione audiovisiva e in quella tecnico-commerciale. Per questo motivo, se la traduzione diretta dal coreano potrebbe offrire enormi opportunità professionali, quella fatta da una lingua intermedia costituisce uno sforzo minore per chi commissiona il lavoro, anche perché senza considerare il risultato finale un testo già tradotto in un’altra lingua magari più vicina (in questo caso all’italiano) può essere leggibile anche da un editore non specializzato in quella di origine e quindi convincerlo a lavorarci. Pur essendo questa una pratica rischiosa e potenzialmente dannosa in termini di fedeltà al testo di origine, credo che alla base di questa dinamica ci sia un ragionamento principalmente economico. Tradurre da una lingua asiatica verso una lingua come l’italiano ha un costo medio maggiore, sia per il numero di professionisti a disposizione, sia per il tempo di lavoro necessario per raggiungere un buon risultato. Si dovrebbe trattare di un ragionamento piuttosto logico di etica del lavoro quando gli abbinamenti di lingue sono poco diffusi, ma spesso questa caratteristica non viene considerata da chi commissiona traduzioni. Ricordando poi che l’editoria è un campo in costante difficoltà più o meno per tutte le figure professionali che ne fanno parte, è logico anche pensare che per un editore attingere al mercato ben più competitivo di una lingua “ponte” più vicina all’italiano comporti un dispendio minore di risorse per un risultato comunque sufficientemente apprezzabile, indirizzato a un pubblico che tra l’altro difficilmente potrebbe individuarne le differenze rispetto al testo originale. Se poi l’autore dell’opera, il proprio agente e la propria casa editrice sono disposti a cedere a questo compromesso pur di far attecchire in un mercato di nicchia come quello italiano nuove proposte, la negoziazione diventa semplice, anche a discapito del traduttore. Per riassumere, a mio parere la risoluzione di questa problematica sta di fatto nell’avere il coraggio e la volontà nel voler maneggiare materiali in lingua originale, anche a rischio di fare un investimento che non porti a grandi profitti nel medio termine, e nella considerazione del valore di una traduzione che non tema perdita o manipolazione eccessiva di informazioni e che sia più in contatto con il testo di origine.
Quali consigli ti senti di dare a chi vorrebbe intraprendere questo mestiere?
Per chi vuole tradurre da una lingua come il coreano, ma credo valga in generale per chi vorrebbe fare della traduzione editoriale il proprio mestiere, il consiglio migliore che mi sento di dare (ma anche di darmi, perché i momenti di frustrazione non sono pochi) è, in egual misura a quello che scrivevo prima, avere coraggio. Non darsi per vinti è essenziale, perché fare scouting, proporre un nuovo lavoro a un editore, farsi conoscere con prove di traduzione quasi mai retribuite e arrivare finalmente a vedersi commissionata un’opera è un’impresa che necessita di grandi dosi di pazienza e di voglia di abbattere muri fatti di lunghe attese e incomprensioni. Il coreano nel campo editoriale italiano soffre ancora di scarsi investimenti, ma si sta assistendo gradualmente a una costante crescita di interesse, quindi per me provare vale sempre la pena. In più, consiglio di cercare attivamente premi di traduzione, concorsi letterari e fondi governativi già esistenti (ad esempio in Corea del Sud un importantissimo ente è il Korean Literature Translation Institute o LTI Korea), che possono fungere da risorse utili per aiutare traduttori esordienti nella gestione del proprio lavoro e nell’ammortizzare gli sforzi con qualche tutela in più. Un altro suggerimento che mi sento di dare è quello di lavorare quando possibile con un bravo revisore o insieme a colleghi possibilmente madrelingua, perché l’apporto dello scambio tra individui e le potenzialità di continuo apprendimento sono davvero benefici, aiutano a darsi un buon ritmo di lavoro e a sentirsi meno isolati. Inoltre, per ricevere consulenza specifica e capire a livello nazionale e internazionale quali siano i passi avanti compiuti nella traduzione editoriale, consiglio di iscriversi ad associazioni nazionali di traduttori come AITI o l’associazione sindacale Strade. Io ho compiuto questo passo da poco, scoprendo una rete attivissima di professionisti pronti a dare il proprio supporto e mi sono resa conto di avere molto da imparare.
Negli ultimi anni hai tradotto due graphic novel di Keum Suk Gendry-Kim, rispettivamente Le malerbe (2019) e Jun (2021), entrambe pubblicate da Bao Publishing. La traduzione letteraria è un processo complesso in cui la sensibilità del traduttore gioca un ruolo fondamentale. Cosa significa e cosa implica trasporre tale processo all’interno della traduzione di una graphic novel?
L’esperienza di tradurre due opere di questa straordinaria autrice è stata per me di grande importanza. Personalmente amo le storie a fumetti e credo che negli ultimi anni il romanzo grafico ci abbia mostrato in molti modi il proprio potenziale espressivo, sia nell’uso del testo scritto che nelle emozioni veicolate dal linguaggio visivo. La traduzione di un volume a fumetti è molto diversa da quella di altri tipi di testo che usano meccanismi narrativi, soprattutto perché ci si può sentire molto limitati dallo spazio che si ha a disposizione. Il coreano è una lingua che sa essere concisa nell’espressività e profondissima nella semantica, motivo per cui accade spesso di avere a che fare con vocaboli molto semplici, netti e precisi, che possono essere tradotti in italiano solo con verbosi giri di parole, frasi idiomatiche o veri e propri neologismi. Lo sforzo in questo caso è quello di riuscire a rendere nel miglior modo possibile forma, ritmo e messaggio in uno spazio molto limitato. Il bagaglio visivo che i romanzi grafici offrono, come nel caso delle opere di Keum Suk Gendry-Kim, è la ricchezza che d’altro canto esalta il traduttore nel suo processo di comprensione e lo aiuta a immergersi meglio nella storia da veicolare al lettore nella lingua d’arrivo. Tradurre un fumetto è un esercizio alla sintesi che trovo davvero affascinante.
Leggere lascia delle tracce che riaffiorano di tempo in tempo, che cosa ti ha lasciato la traduzione de Le malerbe e Jun?
I romanzi grafici di Keum Suk Gendry-Kim mi hanno lasciato un grande bagaglio e mi sono sentita onorata di poter partecipare all’edizione italiana di due delle sue storie. Ho trovato molto preziosa la capacità dell’autrice di mescolare la propria testimonianza personale, l’illustrazione e il racconto in terza persona per esplorare situazioni complesse e non definibili solo a parole. La capacità di narrare in senso oggettivo e realistico, con sincerità, empatia e senza lasciarsi andare a sentimentalismi, facendo trasparire al contempo attraverso il suo tratto la propria sensibilità di osservatrice, sono qualità che mi sono rimaste impresse in entrambe le opere. Sia ne Le malerbe che in Jun ho trovato una testimonianza preziosa su temi che sentivo particolarmente vicini, che toccavano sia la mia provenienza personale che momenti di scambio, studio e scoperta vissuti in Corea. La risonanza di queste due opere è stata davvero forte per me e il senso di arricchimento che ho provato nel tradurle è stato massimo. Sono felice di aver potuto contribuire a diffondere queste due storie in lingua italiana, ma personalmente penso di aver fatto ben poco. Il talento e la capacità di narrare che questa autrice possiede, hanno fatto praticamente tutto il lavoro.
Entrambe le graphic novel prendono le mosse da storie vere per trattare questioni delicate, quella delle comfort women e quella dell’impreparazione della società coreana nel rapportarsi a persone con disabilità intellettive. Trovo che l’autrice le abbia trattate con delicatezza e rispetto, senza mai aver cercato di strumentalizzare il dolore né tanto meno aver introdotto uno sguardo compassionevole verso i protagonisti delle storie. A questi ultimi viene tolto lo stigma del “povero sfortunato”. Non è una cosa scontata.
Sono pienamente d’accordo. L’autrice è capace di catturare alcune sue esperienze e quelle di persone che hanno attraversato il suo cammino con grande intuizione, delicatezza e notevole umorismo. Una caratteristica che mi ha colpito leggendo le sue tavole è stata la capacità di rappresentazione del reale. La Corea del Sud è stata ospite di un grande fermento artistico di genere realista negli anni ’80 durante i movimenti popolari di democratizzazione, e questo genere di rappresentazione della realtà è stato capace di dare voce a una potente urgenza espressiva verso tematiche sociali sensibili e poco indagate, veicolando un tipo di linguaggio capace di sintetizzare per un pubblico vastissimo un’enorme quantità di temi. Questa autrice a mio parere oltre alla sua originalità mostra una forte interiorizzazione di questo bagaglio culturale e ha la capacità di esprimere con grande trasparenza e dignità temi sociali molto delicati, attuali e trasversali, in una forma comprensibile a qualsiasi lettore.
Nel 2021 l’ultimo lavoro di Keum Suk Gendry-Kim è stato tradotto in inglese, The waiting, ed edito da Quarterly & Drawn. Possiamo aspettarci una sua prossima traduzione in italiano?
Keum Suk Gendry-Kim ha potuto contare sulla lungimiranza e professionalità della direzione editoriale di Bao Publishing, che ne ha compreso il valore e ha voluto credere nel suo talento. The Waiting, altra opera importante, ha ricevuto grande consenso non solo in Corea ma anche nelle sue traduzioni in inglese e francese. So che in Italia si continua a credere molto in questa autrice e mi auguro anch’io di vedere questa e altre sue opere presto nelle librerie italiane.
I libri possono essere una via privilegiata di accesso a una nuova cultura, quali libri consigli per avvicinarsi alla Corea?
Penso che più si conosce la Corea e meno sia facile lanciarsi a generalizzazioni. Ci sono tanti aspetti che possono essere interessanti per chi si sente attratto da questa realtà, e non essendoci ancora moltissimo a disposizione in lingua italiana mi sentirei di consigliare di leggere il più possibile, tutto ciò che si può trovare. Se ci si intende muovere nella narrativa, per avvicinarsi consiglio certamente i romanzi nelle traduzioni di Andrea De Benedittis, come Notti invisibili, giorni sconosciuti della scrittrice Bae Suah, pubblicato da add Editore (casa editrice che sta espandendo molto la propria offerta verso l’Asia), o le numerose opere del pilastro della narrativa contemporanea coreana Hwang Sok-yong (solo per citarne alcune, Tutte le cose della nostra vita, L’ospite, Il signor Han o Bianca come la luna). Ovviamente è un’opinione di parte, ma come opere contemporanee immancabili che abbiamo la fortuna di avere in italiano dopo uno straordinario successo internazionale, consiglierei le traduzioni dall’inglese ma con un sapiente e godibilissimo adattamento in lingua italiana de La Vegetariana e Atti Umani di Han Kang, editi da Adelphie tradotti da Milena Zemira Ciccimarra. Consiglierei anche Storie dalla Corea, tradotto dal coreano da Benedetta Merlini, che offre uno spaccato della letteratura coreana del Novecento e, sempre dalla stessa traduttrice Io ci sarò, dell’autrice Shin Kyung-sook. Personalmente, ho apprezzato moltissimo anche L’impero delle luci di Kim Young-ha, sempre tradotto da De Benedittis per Metropoli d’Asia. Riguardo alle graphic novel oggi disponibili, consiglierei di conoscere il progetto editoriale Woodpark Picture Books degli autori Miba e Josh Prigge di cui con Bao Publishing abbiamo curato l’edizione italiana della storia Celine & Ella; Dear My Gravity, e il bellissimo Ragazze cattive, storia realizzata dall’artista Ancco, edito da Canicola e tradotto da Roberta Barbato.
Complice anche il grande successo di qualche anno fa di un’autrice come Han Kang e il generale interesse degli ultimi tempi verso la Corea, l’editoria italiana comincia a offrire proposte interessanti. Quali autori/libri ti piacerebbe trovare nei cataloghi? E quali ti piacerebbe tradurre?
La letteratura coreana contemporanea pullula di autori promettenti. Sono certa che entro breve le case editrici italiane che si stanno aprendo di più a questo paese ci daranno un’offerta sempre più variegata. Seguendo anche un po’ il panorama internazionale, vorrei leggere in italiano di più l’autrice Bae Suah, e mi piacerebbe molto trovare sugli scaffali storie sci-fi come la raccolta di racconti brevi che in inglese è stata tradotta con The origin of species and other stories dell’autrice Kim Bo-young che attraverso le sue storie tratta sapientemente un’enorme quantità di temi. Mi piacerebbe anche vedere una maggiore offerta di poesia, saggistica, libri d’arte e letteratura moderna. Insomma, ci sarebbe tantissimo da fare e da scoprire. Un mio grande desiderio sarebbe anche quello di vedere nei cataloghi i racconti di autori importanti come Park Min-gyu (già presente in italiano con Pavana per una principessa defunta, sempre tradotto da Benedetta Merlini, edizione di Metropoli d’Asia), che ho scoperto grazie all’interesse di due miei cari amici appassionati di letteratura coreana contemporanea.
Tra gli autori di graphic novel che vorrei tanto tradurre oltre a quelli che sono già arrivati in Italia, e che sto provando non senza difficoltà a far conoscere c’è Kim Hong-mo, che ho apprezzato moltissimo non solo per i suoi romanzi grafici ma con le sue raccolte di webtoon, genere di fumetto online ancora poco conosciuto in Italia. I suoi ultimi due lavori, di grande impegno su temi sociali, sono un sapiente mix tra autobiografia e di testimonianze di rilevanza documentaria. Tra gli autori che ho avuto la fortuna di tradurre, mi piacerebbe anche vedere altre storie di Miba e Josh Prigge, gli editori della Woodpark Picture Books, che di recente stanno ampliando la loro offerta e che trovo davvero bravissimi.
Una piccola variazione pop sul tema. Negli ultimi mesi, grazie ad alcune trasposizioni seriali di successo, i webtoons – fumetti concepiti per essere letti da telefono – hanno attirato grande attenzione. Eppure l’unico modo di leggerli per chi non conosce il coreano di è affidarsi alle traduzioni in inglese o francese. Come mai nessuno sembra volersene occupare?
Il webtoon è un genere di fumetto online molto in voga in Corea ma ancora poco “di consumo” in Italia, se non da lettori e traduttori appassionati che sanno dove andare a cercare e che ne diffondono contenuti e traduzioni in più lingue, spesso in forma totalmente gratuita. È un formato immediato, altamente tecnologico e spesso accessibile poiché frutto di autopubblicazione su piattaforme create ad hoc da parte degli autori senza alcun intermediario. Spesso dai webtoon autori e illustratori coreani hanno avuto una diffusione tale da essere poi pubblicati in formati più “tradizionali”. Probabilmente il pubblico italiano è ancora molto legato al cartaceo e all’offerta degli editori; quindi, mi viene da pensare che i tempi non siano ancora del tutto maturi verso la scoperta di questo genere di fumetto. L’interesse crescente verso autori di talento e storie accessibili sul Web fanno ben sperare però che si possano avere sempre più traduzioni in questo ambito, anche in italiano.
Puoi dirci a cosa stai lavorando in questo periodo e quali sono i tuoi progetti futuri?
Ho chiuso da poco una storia classica e un lungo e appassionato lavoro di traduzione a quattro mani di un romanzo di Kang Hwa-gil, una giovane e pluripremiata scrittrice sudcoreana che indaga tematiche legate al mondo femminile e alla violenza di genere, che spero venga presto pubblicato e che riceva una buona accoglienza tra i lettori. In questo momento sto anche lavorando alla stesura della traduzione di un romanzo contemporaneo di genere noir, che spero di poter consegnare a breve e che uscirà entro l’anno. Appena chiuso quest’ultimo lavoro, proverò a continuare a fare scouting con altri autori che credo potrebbero essere ben recepiti dai lettori italiani.
Non so per certo se quella della traduzione sarà una professione che sarò in grado di portare avanti per lungo tempo, ma mi auguro di sì. In futuro spero di poter continuare a imparare e acquisire sempre più strumenti per conoscere la Corea attraverso chi ha la forza di raccontarla e raccontarsi. Ragionando di pancia, spero di avere anche maggiori occasioni nell’ambito delle graphic novel, perché credo fortemente in questa forma narrativa, che sento particolarmente affine alle mie corde.
Vi ringrazio immensamente per la possibilità di condivisione che mi avete offerto.
Grazie per lo scambio di idee!