Ogni appassionato di cinema alla parola “vendetta” non potrà fare a meno di portare la sua mente alla Corea (e se queste due parole, insieme, non vi dicono niente dovete assolutamente rimediare, e speriamo che questo articolo possa aiutarvi!).
Probabilmente il film più esemplificativo dell’idea di vendetta alla coreana, sebbene ispirato ad un omonimo manga giapponese, è Old Boy, opera del 2003 di Park Chan Wook, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria nell’edizione del 2004 del Festival di Cannes. Dopo quasi 20 anni dalla sua realizzazione, Old Boy è a pieno titolo un cult del cinema internazionale, lodato da altri grandi registi come Quentin Tarantino, che lo definì “il film che avrei sempre voluto fare”.
Vi è un’altra pellicola che su diversi aspetti ricorda il capolavoro di Park Chan Wook, ma che su altri ritengo lo superi per la sua capacità di sfiorare quella che è l’essenza della condizione umana. L’opera in questione è “Pietà” del 2012, realizzata dal controverso regista Kim Ki Duk, probabilmente più apprezzato all’estero che in patria, e che con questa pellicola vinse il Leone D’Oro nella 69ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
Quella che segue si discosta da una canonica recensione, piuttosto vuole essere una riflessione sulle tematiche trattate in questi due capolavori cinematografici. Per poter fare ciò, non abbiamo potuto fare a meno di inserire alcuni spoiler e riferimenti ad alcune scene di rilievo, per cui consigliamo la lettura a chi ha già visto questi film.
Il tema della vendetta ed il tipo di narrazione utilizzato in questi film non può che portarci a farne un confronto: un avvenimento misterioso, il rapimento di Dae Su da una parte, l’improvvisa comparsa della madre di Kang Do dall’altra, portano lo spettatore a sviluppare una grande bramosia verso la verità. Ma questa si presenta in colpi di scena che sono letteralmente uno schiaffo emotivo: è insostenibile, nel caso di Old Boy ci repelle allo stesso modo delle parole che Tiresia rivela ad Edipo. Secondo il filosofo ed antropologo francese Lévi-Strauss il tabù dell’incesto è ciò che definisce la società civilizzata:
“Prima di esso (il tabù dell’incesto) la cultura non è ancora esistente. Con la sua comparsa ha fine la sovranità della natura sugli uomini. La proibizione dell’incesto è dove la natura trascende sé stessa”.
I personaggi di queste storie si muovono in una dimensione liminale. La vita di Yi Woo Jin, il “villain” in Old Boy, ha fine nel momento in cui perde sua sorella, è solo il suo desiderio di vendetta a mantenerlo al mondo. Nelle sue mani la vita di Dae Su è ridotta come quella di un burattino. Woo Jin è paragonabile ad una divinità greca che usa gli uomini come suoi giocattoli. In una intervista lo stesso Park Chan Wook ha dichiarato:
“Yi Woo Jin è un regista ed una figura surreale, simile ad una divinità (…) La posa dello yoga che assume in una scena del film è atta a dare un’immagine di lui come un uomo che trascende il reame dell’ordinarietà. È una posa sacra e magnifica, che ricorda l’immagine di Apollo, basata su una religione politeistica come quella dell’India o dell’antica Grecia. È questo quello che volevo che l’attore Yu Ji Tae trasmettesse con il suo corpo”.
Mentre per gran parte del film siamo portati a simpatizzare per Oh Dae Su, il cui nome tragicamente ricorda il nome latino di Edipo, Oedĭpus, la rivelazione della verità ci sconvolge ed annienta ogni certezza.
“Sebbene io sappia di essere peggio di una bestia, non crede che abbia anch’io il diritto di vivere?”
Queste parole rubate da un uomo di cui non sapremo mai nulla, e che Dae Su fa sue, impietosiscono la ipnotizzatrice che finisce con l’adempiere all’ultima richiesta del nostro moderno Edipo: dimenticare la verità. Il tabù è stato ormai infranto, l’uomo è stato squalificato dall’umanità ed è tornato ad essere bestia. Da una parte l’umano che per poter vivere deve continuare a sentirsi tale, dall’altra la bestia, quello che l’ipnotista chiama “monster”, il mostro. Oh Dae Su decide di uccidere il mostro mandandolo nell’oblio della sua mente, ma il mostro può essere solo metaforicamente e simbolicamente soppresso perché il mostro siamo noi. Questo doppio, come tutti i doppelgänger che popolano miti e letteratura, non esiste fuori dal singolo essere umano: è sempre stata una allucinazione la sua presenza esterna, è il riflesso che ci spaventa. Il perturbante ci terrorizza non tanto per il suo essere diverso, alieno, da noi, ma per ciò che ci assomiglia: è il familiare reso mostruoso. Ed è il nascosto, il represso, il Mr Hyde che seppelliamo ed ingabbiamo dentro di noi. Potrei andare avanti all’infinito, parlare di fantasmi ed esorcismi, di quei riti sciamanici che crediamo servano a placare spiriti in pena e che forse vogliono solo aiutarci a tornare alla civiltà, facendo sublimare le nostre sofferenze, il dolore; preservandoci dalla follia, dall’abbandonarci all’irrazionale. C’è chi alla fine di Old Boy è saltato dalla sedia disgustato, una persona alla quale avevo consigliato questa visione mi ha guardato con una tale perplessità da far sentire un po’ mostro anche me. Il gioco è tutto lì: non è una storia che vuole solo sconvolgerti, ti turba portandoti a simpatizzare per tutti quei piccoli “mostri” che sono al tempo stesso eroi e villain. Sebbene ce lo abbia fatto tanto odiare, alla fine Park Chan Wook ci spinge a piangere insieme a Woo Jin mentre afferra la sorella su quel maledetto ponte.
Anche Pietà ha luogo in una dimensione liminale, quella degli ultimi della società, i poveri, esseri ridotti dalla loro posizione sociale ad uno stato quasi bestiale dove ogni giorno è per loro una lotta per la sopravvivenza. Ancora una volta l’umano è ridotto a bestia, ma a ridurlo in questo stato non sono l’infrazione di un tabù come l’incesto (l’infrazione del tabù avviene, ma è la conseguenza della recessione a tale stato esistenziale) o il desiderio di vendetta, è il denaro la matrice di questo orrore. Ebbene sì, ancor prima di “Squid Game” e “Parasite” si trovano numerose pellicole di grande spessore che affrontano il tema della deriva capitalista che sta disumanizzando la società coreana, come quella di tante altre nazioni in Occidente.
“Cosa sono i soldi?” chiede Kang Do, “La fine e l’inizio di ogni cosa” risponde la sua presunta madre “Amore, onore, odio, vendetta”
Kang Dong è stato abbandonato alla nascita e cresce senza conoscere l’affetto di una famiglia. Vive nella più totale solitudine. Da un macabro ritratto di una donna a torso nudo su un tiro al bersaglio possiamo intuire il suo odio per le donne, ritroviamo qui il complesso di Edipo che ci mostra come in coloro verso le quali riversa il suo desiderio sessuale riveda quella madre che lo ha rinnegato. Kang Do è quindi un essere anaffettivo, l’unico in grado di poter compiere un lavoro come il suo: menomare persone che hanno contratto debiti con degli strozzini per poterne così riscuotere il risarcimento dell’assicurazione e con tali soldi ripagare i loro creditori. Ma un giorno Mi Seon compare nella sua vita, affermando di essere la madre che lo ha abbandonato. Kang Do a questo punto attraversa un processo di regressione verso l’infanzia, dopo un iniziale rifiuto della donna che culmina in una agghiacciante scena di stupro.
Tuttavia, lei si mostra pronta a perdonarlo persino per aver infranto il tabù dell’incesto, davanti a ciò Kang Do finalmente l’accetta come sua genitrice: è così che supera in età adulta il complesso di Edipo, davanti agli occhi scandalizzati dello spettatore. Ed è proprio da questo momento che inizia a scoprire sentimenti di affezione a lui prima sconosciuti, finanche arrivando a provare empatia per le sue vittime: si identifica con loro, con il loro essere parte di una famiglia, comprende che far loro del male vuol dire far soffrire anche qualcun altro ed è qualcosa che non riesce più a sopportare. Prova pietà.
Ma trasformarlo in umano è proprio quello che Mi Seon cerca per la sua vendetta. Mi Seon non è la vera madre di Kang Do. Mi Seon è stata la madre di qualcun altro. Mi Seon conosce il dolore più grande che un essere umano possa affrontare: la morte di un figlio. Mi Seon vuole solo vendetta prima di mettere fine al suo dolore con la morte. Ma Mi Seon è umana, nell’evoluzione di Kang Do verso l’empatia non può che provare empatia a sua volta. Prova pietà. Mi Seon prima di portare a termine la sua vendetta versa lacrime di dolore per Kang Do: una scena di un lirismo immenso. Il riferimento alla Pietà di Michelangelo, riprodotta dai due protagonisti sulla locandina del film, si palesa in tutta la sua drammaticità ed, al contempo, umana bellezza. La pietà scorre nelle lacrime di noi spettatori che conosciamo tutta la tragica verità, mentre Mi Seon urla, Kang Do implora, la caduta, Kang Do urla, il rumore della terra spalata, l’acqua versata e poi tutto si conclude nella penombra di un’alba di un insostenibile nuovo giorno.
Citazioni:
- Lévi-Strauss, Claude (1949), Needham, Rodney, ed., Les Structures élémentaires de la parenté [The Elementary Structures of Kinship] (in French), J. H. Bell, J. R. von Sturmer, and Rodney Needham, Translators (1969 ed.), Traviston (1970 paperback), p. 25.
- http://www.ikonenmagazin.de/interview/Park.htm