In una recente intervista radiofonica con il programma Korea 24 dell’emittente KBS World, il traduttore Anton Hur ha definito Han Kang: “una scrittrice estremamente coraggiosa, che ha deciso di fare dell’esplorazione della violenza il soggetto della propria arte”. Questa definizione mi ha colpito profondamente e, mentre richiamavo a memoria uno ad uno i libri di Han Kang che avevo letto, per la prima volta si è formato chiaro nella mia mente il filo rosso che li unisce.
Il fatto che Han Kang sia stata scelta, insieme alla scrittrice argentina Mariana Enríquez, per pronunciare il discorso di apertura del Seoul International Writers’ Festival di quest’anno, non mi è sembrata una coincidenza. Entrambe si fanno sensibili interpreti di orrori nascosti, di sentimenti profondi che scorrono nelle vene della società, e li portano alla ribalta sulla pagina scritta. In entrambe i corpi (o la loro assenza) ritornano come elemento centrale della narrazione. L’Argentina, come la Corea del Sud, ha un passato dittatoriale e di repressione, ha vissuto una devastante crisi economica alla fine degli anni novanta e presenta un tessuto sociale caratterizzato da grande disparità. Non mi stupisce dunque che, proprio in questi due Paesi, sia emersa una nuova generazione di scrittrici capace di farsi interprete di una violenza che si riflette in primis sul corpo delle donne, e di riflesso su altre fasce della società.
Ne “La Vegetariana” l’oggetto della violenza è il corpo femminile. La storia della protagonista, Yeong-hye, viene sempre raccontata attraverso le percezioni di un’altra persona: prima il marito, poi il cognato e infine la sorella. È come se Yeong-hye stessa fosse privata del diritto di avere una propria identità, e la sua esistenza fosse giustificata solo in quanto funzionale alle esigenze di un’altra persona. La decisione di non mangiare più carne è l’atto di ribellione, è la necessità di Yeong-hye di riaffermare la propria esistenza in quanto individuo a sé. Al tempo stesso però, è anche negazione di quel corpo che è memoria e testimone di una violenza fisica e psicologica. Il disgusto per la carne della protagonista, reso palpabile dalla natura grafica dei suoi sogni, si identifica con la rinnegazione di quel corpo stesso e con la ricerca di una rinascita, di una liberazione dal trauma.
In “Atti Umani” la violenza è quella dello Stato nei confronti dei propri cittadini. Nonostante la Corea del Sud uscisse già da un regime autoritario, il colpo di stato del 1979, e la conseguente applicazione della legge marziale, scatena un’ondata di violenza inaspettata che sfocia nel massacro di Gwangju.
Il corpo qui non è uno, ma sono tanti. “Atti Umani” è un romanzo corale in cui le storie dei singoli personaggi si intrecciano le une con le altre, e ognuno si fa testimone e memoria della vita dell’altro. Qui la parola chiave è memoria, una memoria che per anni è stata rimossa e negata. La memoria di tutti quei corpi che, nel breve arco di dieci giorni, si sono ammassati per le strade di una città militarizzata. E qui, ancora una volta, è la scrittura grafica di Han Kang a rendere palpabile la violenza: la fila di bare nella palestra dell’ufficio provinciale, l’odore intenso che pervade la stanza e che le candele non riescono a coprire, e poi ancora corpi: trasportati e impilati a forma di croce in un luogo non identificato, corpi torturati, corpi sfregiati. I corpi in questo caso si fanno testimoni dell’assenza, e le storie dei personaggi rappresentano la memoria di quelle vite perdute.
Nel nuovo romanzo appena uscito in Corea del Sud: “No Goodbyes” (작별하지 않는다) Han Kang torna a parlare di un evento traumatico della storia del suo paese: l’insurrezione di Jeju del 3 Aprile 1948. Si tratta di una sollevazione popolare scoppiata in protesta alla divisione del Paese che (di lì a poco) con la Guerra di Corea sarebbe diventata una realtà permanente. La memoria della rivolta, repressa nel sangue dall’esercito, sarà (come è avvenuto per il massacro di Gwangju) rimossa e negata fino alla democratizzazione del Paese (1987). Han Kang, dunque, si fa ancora una volta interprete della violenza e assume il ruolo di testimone e cronista del trauma. Al momento, purtroppo, non c’è ancora notizia ufficiale di una traduzione in inglese (o in italiano) di questo libro, quindi dovremo ancora aspettare con pazienza il momento in cui potremo immergerci nuovamente nella intensa e penetrante scrittura di Han Kang.