Quando ho cominciato ad appassionarmi alla Corea una delle prime storie con la quale sono venuta a contatto è stata quella della rivolta di Gwangju. Il racconto di Paul Courtright, che all’epoca dei fatti lavorava come volontario dei Peace Corps in un villaggio vicino alla città e che è stato testimone oculare delle violenze perpetrate dall’esercito, mi colpì molto. Mentre ascoltavo la sua intervista, le sue parole si sovrapponevano nella mia mente ad altri racconti e ad altre immagini: i prigionieri nell’Estadio Nacional de Chile durante il golpe dell’11 settembre 1973, le testimonianze dei sopravvissuti ai centri di tortura clandestini nell’Argentina della dittatura militare degli anni settanta, e, senza andare troppo lontano, le immagini del pavimento e delle mura ricoperte di sangue della scuola Diaz di Genova, nel luglio del 2001. Quei momenti in cui in una nazione si verifica la sospensione dei diritti civili si assomigliano tristemente tutti.
Il 12 dicembre 1979 in Corea del Sud sale al potere con un colpo di stato militare il generale Chun Doo-hwan. Deciso a schiacciare definitivamente i movimenti di opposizione al proprio regime il 17 maggio del 1980 il dittatore dichiara in vigore la legge marziale su tutto il territorio nazionale, la legge prevede tra l’altro la chiusura delle università e proibisce ogni attività politica. Il 18 maggio gli studenti e i cittadini di Gwangju scendono in piazza per manifestare a favore del ripristino dei diritti civili. Nei dieci giorni che seguiranno, la città sarà assediata e i suoi cittadini barbaramente torturati e uccisi dall’esercito.
Negli anni successivi alla caduta del regime dittatoriale (1987) la rivolta di Gwangju è stata raccontata e ricordata attraverso il cinema, la musica e la letteratura, ma il fatto che se ne parlasse così ampiamente in un k-drama, che ha un pubblico di riferimento normalmente più vasto rispetto a quello dei media precedentemente menzionati, ha particolarmente attratto la mia attenzione. Mi è parsa, inoltre, molto significativa la scelta dell’emittente KBS2 di trasmettere i 12 episodi di Youth of May proprio nel mese di maggio.
La storia si svolge nella città di Gwangju nei giorni che precedono e nei giorni stessi della rivolta, e segue da vicino l’incontro e la nascita di una relazione d’amore tra un giovane studente di medicina, Hwang Hee-tae, e una infermiera, Kim Myung-hee. La storia di Hwang Hee-tae e quella di Kim Myung-hee si intrecciano con quella delle loro rispettive famiglie, e quella della famiglia di Lee Soo-ryeon, amica di infanzia di Kim Myung-hee e figlia di un ricco industriale di Gwangju. Nel corso del mese di maggio del 1980 le vite dei nostri protagonisti e quelle dei loro amici e parenti verranno segnate da eventi che li cambieranno irrimediabilmente.
Anche se l’impianto è quello tradizionale dei K-drama di genere romantico (il triangolo amoroso, la relazione ostacolata dalle famiglie e dagli eventi e l’amore che non si riesce a negare o controllare) la serie non ha nulla di scontato, a partire dalla protagonista femminile: un concentrato di forza e determinazione racchiuso nell’esile corpo di una giovane alta si e no un metro e cinquanta. Ti basta uno sguardo per capire che Kim Myung-hee è un fuscello che si piega, ma non si spezza; una donna determinata che anche nei momenti più difficili saprà restare fedele a se stessa e ai propri valori. Come Myung-hee, anche gli altri personaggi della serie sono estremamente ben caratterizzati e, anche se inizialmente aderiscono pienamente al ruolo che gli è assegnato nella logica classica della narrazione del K-drama (Il capo famiglia spietato e desideroso di affermare il proprio potere, il povero rassegnato alle ingiustizie della vita, o la moglie soggetta alle angherie del marito) ognuno di loro cresce, si evolve, è costretto dall’eccezionalità degli eventi a confrontare la parte più intima, più vera di sé e a compiere una scelta.
Ed è proprio questo il punto di forza della serie: l’elemento collettivo, l’insieme dei personaggi, che nel piccolo identificano la città di Gwangju, e di riflesso rimandano alla nazione tutta. La rivolta di Gwangju rappresenta infatti una sorta di spartiacque nella storia per la lotta alla democrazia in Corea del Sud e costituisce un trauma collettivo caratterizzato dalla complessità che comporta il ricordo di un evento di questa natura. Il ricordo di chi è sopravvissuto e di chi non c’è più. Il ricordo di chi in un giorno di maggio è uscito di casa e non è mai più tornato, e il suo corpo non si sa dove sia. Il ricordo di chi ha sparato sulle folle e oggi non sa più tanto bene come vivere con se stesso.
Youth of May non è una visione facile ma è una che ne vale la pena, fino all’ultima lacrima.