“L’energia è realtà, se la realtà può esser descritta, non è più realtà. La realtà non è mai ciò che credi. L’esperienza coreana rimaneva nel mio subconscio, ma negli scorsi dieci anni sono cambiato. E anche la Corea è cambiata”
Cody Choi, intervista per il Counterbalance
Apriamo così questo approfondimento sul padiglione Corea presente alla Biennale di Arte di Venezia di quest’anno che si è appena conclusa il 26 novembre, con una delle tante, ma significative affermazioni di Cody Choi, artista protagonista dell’esposizione, assieme a Lee Wan.
Questo evento che si svolge annualmente è una tappa fondamentale per coloro che hanno a che fare con l’arte, come riuscire in un jackpot al casinò, metafora non casuale considerando l’aspetto esteriore dello spazio allestito nei Giardini della Serenissima per essere il padiglione coreano.
La struttura del padiglione Corea in generale è già affascinante a modo suo, ogni nazione si propone in un’area rigogliosamente verde e sfruttando un’estetica a proprio piacimento, ma da visitatrice che passa da una mostra all’altra, non ho potuto fare a meno di rimaner catturata dalla sua presentazione visiva. A primo impatto, considerando la numerosa presenza di alberi, non ho notato la scritta “Corea”, sono dovuta entrare direttamente per rendermi conto che si trattava di tale paese; in un secondo momento ho realizzato l’effettiva esistenza di una tale indicazione. Il visitatore non può fare altro che rimanere affascinata da una tale opera caratterizzata da una miriade di luci a neon, sotto il nome di Venetian Rhapsody-The power of bluff. Dietro tutto ciò, come del resto in tutte le sue altre proposte, troviamo la sua opinione su tutto, con una forte impronta biografica che condiziona e modula la mente dell’artista. Questi si riferisce a tale istallazione descrivendola con l’appellativo di Casino Capitalism, fonte di speranza o bruttezza artistica, mischiando elementi che ricordano esplicitamente Las Vegas e Macao, città del gambling che fanno sognare i frequentatori spinti da uno slancio venale e consumistico, caratteristici di quest’epoca.
Sotto le lettere illuminate della parola motel, salta all’occhio un dettaglio tagliente allo spettatore medio, ipnotizzato da tale provocazione, è forse il diretto interessato nel giudizio di Cody Choi, espresso nel cartello all’ingresso, non può far altro che entrare.
L’interno è composto da varie sale, le quali sono divise con l’altro artista sopra citato, Lee Wan, ma onde evitare un’eccessiva confusione passando da un argomento all’altro, direi di condurre linearmente un discorso su Cody Choi.
Nasce nel 1961, in una famiglia che, prima della sua venuta al mondo, vive lo sfondo drammatico della Corea sotto l’occupazione giapponese e la Guerra di Corea (1950-1953). Egli, invece, vive in pieno la modernizzazione coreana, quando la EUSA (Eighth United States Army) aveva una decisiva influenza sulla Corea. Tale circostanza viene costantemente in discussione da Choi, sia pensando al suo passato e sia esprimendosi sul presente, poiché tale processo, dal canto suo, non fa altro che portare un’occidentalizzazione nel paese, passando sottilmente grazie all’impatto sulla massa con riviste o abbigliamento. Nella sua arte si aggrappa ad esperienze vere, specie quella sperimentata negli USA, quando deve trasferirsi all’età di 22 anni in seguito alla bancarotta di suo padre, cercando fortuna altrove. Da tale periodo deriva il suo disincanto, rendendosi conto di quanto fosse fittizia e storpiata l’apparenza americana nella realtà coreana, avendo uno shock. Le vicissitudini non sono poche, ma la svolta arriva quando viene ammesso al Art Center College di Pasadena, in California. Ad ogni modo dove aspettare fino al momento in cui andrà a vivere a New York per far decollare la sua carriera, dove incomincia ad insegnare alla NY University nel 1994, la quale lo manda nel 2002 come docente in scambio presso la Ehwa Women’s University, esperienza che lo porta a ritornare nella madrepatria un anno dopo.
Questo bagaglio viene espresso in maniera eccellente attraverso i capolavori posti nello spazio interiore, come ad esempio la sua scultura The Thinker, il pensatore, che ricalca il modello di Rodin. Tale ispirazione non è casuale, visto che grazie al suo periodo all’estero ammette di esser riuscito a comprendere l’arte occidentale, gesto che lo porta di conseguenza a sfruttare tali conoscenze, mettendoci del suo.
Il pensatore di Cody Choi a primo impatto, per colui che non ha idea di chi sia l’artefice, sembra essere seduto su un gabinetto. Intuizione azzeccata, infatti egli spiega a Jerry Saltz in un’intervista la sua relazione “costante” col bagno. Sin da piccolo ha avuto problemi intestinali, per via di una cicatrice presente sin dalla sua nascita, perciò sotto suggerimento della madre e della sorella, mentre era seduto dichiara di aver avuto l’abitudine di portarsi con sé libri da leggere. Pertanto egli si identifica col soggetto, il cui atto di pensare viene equiparato alla conoscenza del nulla, visto che se si conosce un qualcosa, non occorre perdere tempo nel rifletterci. “Digerire” e pensare sono posti quindi sullo stesso piano. Seguendo tale concept, si evince che il materiale non è per nulla casuale, visto che la carta igienica impiegata è assemblata e modulata con decine di migliaia di bottiglie di Pepto-Bismol, un digestivo.
Altra opera emblematica è Color Haze, connubio di arte visiva e musicale che, personalmente parlando, al di là di strappare un sorriso, lascia un pizzico di confusione al visitatore. Questi davanti a una qualunque tenda, non può altro che entrare e scoprire l’ignoto, che ha l’aspetto di un’istallazione composta da bicchieri vuoti, illuminati da una luce psichedelica che segue il ritmo delle note di Reality di Richard Sanderson. L’artista afferma di voler dimostrare quanto è facile che l’emozioni travolgano idee e pensieri, specie con un pezzo del genere, che chiunque ha ascoltato nella propria vita, benché per alcuni, talvolta, è comune riconoscere una canzone sentendola, piuttosto che memorizzarne il titolo.
Trovate davvero una vastità infinita di capolavori in questo luogo di questo artista, ma ora lasciamo spazio all’altra figura di rilievo del padiglione Corea, ovvero Lee Wan, classe 1979, nato e cresciuto a Seoul, intraprende la facoltà di scultura presso la Dongguk University. L’artista si rivela subito poliedrico, dilettandosi anche in altre forme artistiche come istallazioni, fotografia e video-documentari, come ha dimostrato con i suoi successi nel suo percorso artistico esponendo nel 2014 alla Biennale di Gwangju e col primo posto nella categoria Art Spectrum Artist organizzato dal Samsung Museum of Art. Tutto questo si evince anche in questa occasione, dove colpisce lo spettatore con il suo archivio Mr.K and the Collection of Korean History, dove traspare chiaramente il suo interesse per il modernismo della Corea, partendo dal 1870 e arrivando ai giorni nostri. L’artista pone le basi di questo progetto dal 2010, raccogliendo oggetti di vario genere, giornali, appunti, libri e via discorrendo inerente la politica e il potere coreano, benché egli ammetta che sin dall’infanzia porta con sé questa attrazione per oggetti vecchi, dai quali riesce a evocare un’incredibile profondità significativa. L’intento è stato quello di dare a tutto ciò un’organizzazione tale da poter comunicare una storia.
Dulcis in fundo, ma non per importanza è la sua istallazione Proper Time, composta a prima vista da una stanza con delle pareti tappezzate da orologi, ma facendo più attenzione si nota che le lancette di cada uno si muovono a velocità differenti e che dentro ognuno di essi è presente il profilo di una persona. Dietro a questo ambizioso progetto l’artefice ci porta davanti una domanda non scontata nell’epoca attuale, ossia “quanto tempo ci impiegano diversi individui da varie parti del mondo ad ottenere un pasto?”. Un’attenzione minuziosa del valore della vita in un sistema capitalista, come egli stesso dichiara, è stata possibile grazie all’opportunità che ha avuto di incontrare diverse persone e sentirne le storie, grazie a interviste online o nella vita reale. Ogni individuo viene presentato col suo nome, con la sua età, nazionalità, occupazione (o meno), entrate annuali di reddito e ricordi personali, presentando 670 profili diversi in semplici quattro pareti bianche. La magia di questo spettacolo sta nel meccanismo degli orologi, oltra all’idea visionaria alla base, ovvero sostituire il valore della velocità della luce con una formula fisica. Il costo medio di un pasto viene messo in relazione al GDP (Gross Domestic Product, il Prodotto Interno Lordo), il cui valore viene impostato sullo standard di 1. Tutto ciò è stato possibile grazie alla collaborazione con ingegneri elettrici e programmatori. Ognuno è impostato sulla vita di un individuo con un moto diverso. La scelta del pasto verte attorno al semplice fatto che si tratta di una necessità universale, che trascende religioni, confini e classi sociali.
Altre opere sono state presentate, degne di nota, ma vorrei concludere qua, con la speranza di suscitare curiosità nel pubblico lettore, ma soprattutto per stimolarvi a non mancare alla prossima edizione della Biennale, evento decisamente meritevole.